“Jerusalem”, il paesaggio come indagine nell’obiettivo di Giovanni Chiaramonte
di Pina Mazzaglia
Pubblicato su “Sicilia Network” 8 Ottobre 2019 at 09:03
CATANIA – “Jerusalem” è la personale di Giovanni Chiaramonte visitabile fino al 27 ottobre 2019 presso le Cucine dell’ex Refettorio (Aula Magna) e il Coro di Notte dell’ex Monastero dei Benedettini, sede del dipartimento Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. La mostra allestita in occasione dell’11ª edizione del MED PHOTO FEST 2019 presenta venti opere del viaggio compiuto dal grande fotografo italiano a Gerusalemme, un viaggio che al tempo stesso è indagine verso Dio nella concezione più significativamente spirituale e trascendentale. Diceva Sant’Agostino «Tutto l’uomo ricerca: ogni elemento della sua natura, nell’inquietudine della finitezza che lo caratterizza, muove verso l’Essere che solo può dargli consistenza e stabilità». La personale fotografica di Chiaramonte, al quale per l’occasione è stato conferito il Premio Mediterraneum 2019 per la Fotografia d’Autore, individua una strategia narrativa singolare, in cui l’io si pone come soggetto e oggetto dell’indagine, in un continuo guardarsi in faccia per gettare luce sui grandi enigmi della vita. Giovanni Chiaramonte, fotografo del mistero e dell’Universo, irresistibilmente impegnato a isolare ed esaltare la forma essenziale delle strutture essenziali dello scenario paesistico universale, raccoglie e innova l’eredità dei grandi interpreti come Ghirri, Cartier-Bresson per consegnarci la sua personale idea di paesaggio, il suo apporto creativo, insostituibile, alla scena naturale del mondo.
Cosa rappresenta per lei il viaggio?
Il viaggio è la ricerca della dimora, una dimora che abita il tempo più che lo spazio e che permetta all’uomo di abitarci per sempre; un “per sempre” che sia nell’amore, nell’unità e nel riconoscimento di tutto ciò che è vivo. Un viaggio è anche consapevolezza di un’origine e insieme riconoscimento di una Entità superiore come fondamento di tutto ciò che è parte del Creato.
Nelle sue foto ogni scatto ricostruisce sottraendosi all’arbitrio del tempo facendo emergere l’aspetto spirituale di un luogo. Quanto è importante il valore simbolico delle immagini?
Nella mia esperienza il simbolo e la figura sono decisivi. Nella mia esperienza artistica non c’è forma nel mondo che non sia simbolo, così come non c’è scala di valori che non rimandi al problema dell’umano. E la fotografia, nonché tutta l’arte occidentale, è dentro l’esperienza del simbolo, quindi della referenzialità. Il simbolo come il mito diventano l’esperienza della ricerca dell’origine e trovandoci in Sicilia questo diventa assolutamente facile da raggiungere. Diversamente accade in Jerusalem, dove troviamo l’opposto, cioè la volontà di lasciare il mito siciliano, come quello greco o pagano e andare verso una città che si presenti come la città di tutte le nazioni, di tutti i popoli e di tutte le lingue.
Com’è nato il suo incontro con Gerusalemme e cosa l’ha spinta a scegliere questa meta?
Perché sai che là c’è un qualcuno, un qualcuno che puoi invocare con il nome di “Padre”, una genealogia della Rivelazione, dove il dramma della morte e della condizione umana viene trasfigurato nell’esperienza dell’attesa, della giustizia, intesa come redenzione. In Jerusalem non ci sono conflitti, non c’è guerra tra israeliani, arabi, palestinesi, bensì solo popoli figli della giustizia che vivono insieme momenti di verità nella pace. Sono immagini che hanno in sé una grande conciliazione dove tutti i popoli si inchinano a Dio come unico cammino delle tre religioni che a Gerusalemme si riconoscono. Il mio è un lavoro messianico perché nelle immagini degli uomini e delle donne che si abbracciano in preghiera c’è il messaggio dell’attesa, della condivisione.
Quali sono i luoghi che possiamo riconoscere come immagine del mondo?
Sicuramente gli interni dove c’è una tavola con una coppa di vino che ci aspetta, oppure i belvedere dove ci è dato insieme ad altri di contemplare il mondo. Sono i giochi dei bambini, sono gli abbracci di due amanti, sono i luoghi in cui nel buio, nella chiusura totale, il sole, miracolosamente, riesce ad attraversare, a penetrare illuminando il buio della condizione umana.
Secondo diverse concetti un luogo può essere finito o infinito. Quando, secondo Lei, un luogo si può definire infinito?
Nel luogo in cui scopriamo che c’è qualcosa di altro. Io amo fotografare spesso i luoghi abbandonati o ai margini perché nella non finitezza apparente visibile noi siamo il cammino. Nelle mie immagini c’è sempre un punto fermo come la profondità del cielo, dove spesso volano uccelli, dove la vita è presente e dove tutto è in attesa di …
Qual è la linea d’orizzonte che predilige fotografare?
Sicuramente il mare, essendo di origine siciliana e di un paese in riva al mare. Dove esso non c’è la profondità del cielo verso cui si alzano gli alberi, in cui volano oggetti, dove si concentra la coscienza degli esseri umani. Ovunque si concentri la nostra coscienza lì c’è un luogo: dove c’è un punto di fuga, dietro c’è la coscienza di un essere umano che sta osservando, che sta vivendo.
È un luogo a sceglierci o siamo noi a scegliere la destinazione?
I luoghi sono sempre stati creati dagli eventi che lì sono successi. Può trattarsi di eventi messi in scena da artisti (pittori, fotografi, registi) costruiti nelle città degli uomini. Ma a mio avviso i luoghi sono sempre proiezioni di un desiderio profondo. Come diceva il grande sociologo René Girard – noi desideriamo sempre qualcosa che abbiamo visto e che qualcuno ci ha detto come degno di essere cercato -.
Quali sono i temi sociali e culturali o i luoghi del mondo ai quali vorrebbe dedicare il prossimo viaggio?
Ho due luoghi dove voglio sicuramente ritornare. Una zona del mar Baltico dove Wernher von Braun ha concepito i primi missili e dove è nata la grande avventura umana dello spazio e dove tra l’altro ha anche vissuto il pittore visionario Friedrich. E, poi… forse, la Cina.
Pina Mazzaglia