Vittorio Graziano, 50 anni di Fotografia (1974/2024)
Indice
- VITTORIO GRAZIANO Fotografie (1974 / 2024) – Mostra realizzata con la Curatela di Sonia Loren
- Per Vittorio Graziano – Ferdinando Scianna
- Evasioni – Pippo M. Pappalardo
- Giuseppe Cicozzetti
- Curatrice della Mostra: SONIA LOREN
- Nulla può essere visto del tutto – Federica Alba Di Raimondo
- Enzo Gabriele Leanza
- Testimone della propria soggettività – Carlo Guarrera
- Marcella Strazzuso
- Approfondimenti
VITTORIO GRAZIANO Fotografie (1974 / 2024) – Mostra realizzata con la Curatela di Sonia Loren
Vittorio Graziano, 1947, ingegnere e fotografo, ha iniziato a fotografare dalla metà degli anni ’70. L’adesione al Foto Cine Clube Bandeirante di San Paolo del Brasile, prima, nel corso di un periodo di permanenza nel paese sudamericano e, successivamente, al Cine Foto Club Etna di Catania, negli anni ’80, dopo, gli ha consentito di partecipare a numerosi contest ed esposizioni collettive e personali, ottenendo numerosi premi e riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale.
Oltre un centinaio le sue mostre personali in Italia e all’estero, in Grecia, Portogallo, Stati Uniti, Brasile, Turchia, Austria, Corea, Svizzera, Jugoslavia, Croazia, Slovenia e Francia.
Nel 1993 ha pubblicato il volume fotografi co Pelagie per l’editrice Sikania fondando nel 1994 la casa editrice Mediterraneum, specializzata in editoria d’arte, soprattutto fotografi ca.
Successivamente ha pubblicato i volumi Ambasciate d’Italia in Turchia (1994), Iasos (1994), Taormina, vedetta degli Dei (1995), Sanatorium Clementi, Storia di un progetto catanese del Novecento (1997) e La Thonet delle Eumenidi (2012).
Ha condotto diversi workshop fotografi ci in Italia, Brasile, Turchia, Slovenia, Croazia e Bosnia.
Dal 2014 è Presidente dell’Associazione Culturale Aps (dal 2023 ente del terzo settore) Mediterraneum (di cui è socio fondatore) attraverso la quale, da ben sedici anni consecutivi, viene organizzato il festival fotografi cointernazionale MED PHOTO FEST, con la successiva costituzione dell’Archivio Fotografi con MEDITERRANEUM COLLECTION attraverso la donazione di opere di artisti italiani e stranieri (ad oggi oltre cinquecento autori per oltre millecinquecento immagini) fi nalizzata alla realizzazione di uno Spazio Museale dedicato alla Fotografi a Autoriale, siciliana, nazionale e internazionale.
Settembre 2024
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Per Vittorio Graziano – Ferdinando Scianna
Vittorio non fa di mestiere il fotografo. Nella vita ha fatto, con competenza e soddisfazione l’ingegnere.
Ma è evidente che nella sua coscienza di uomo la fotografia ha avuto un posto molto importante.
Ha fatto mostre, pubblicato cataloghi, ha sviluppato addirittura un’attività culturale fondando un’associazione e promuovendo festival nei quali ha presentato e promosso molti altri fotografi.
Per lui la passione per le immagini non è una compensazione narcisistica, ma un’esigenza culturale autentica. Vittorio ama la fotografia.
Di solito si usano due parole per definire quelli che non fanno fotografie per professione: fotomatori o dilettanti. Mi sembrano due definizioni molto belle.
L’amore, si sa, può spesso non essere corrisposto.
L’odio lo è sempre.
Ci sono molti “fotoodiatori” anche tra i fotografi di mestiere.
Quanto a dilettante, Alberto Savinio, grande scrittore e pittore, lo considerava l’atteggiamento più alto per chiunque tenti un linguaggio espressivo. Quasi un sinonimo di libertà.
Ci son persone che fanno fotografie “per passare il tempo”, altri, come Vittorio, che lo fanno perché con le fotografie vogliono raccontarlo il tempo, il mondo, la vita, se stessi.
In questa mostra, che vuole ricapitolare molti anni di passione, colpisce la varietà dei temi e degli approcci.
È forse la cosa che più mi piace.
È molto difficile l’unità stilistica in un fotografo. Un fotografo è uno la cui materia prima è la vita, la realtà. Nel raccontarle le inventa. E la vita e la realtà sono varie e molteplici.
Questo non significa affatto che non si riconosca in Vittorio Graziano fotografo una sottile unità stilistica, di sguardo, di atteggiamento intellettuale e formale.
La si riconosce, per esempio, nella sua sensibilità personale nell’uso del colore. Sensuale e sontuoso. Ma anche nella varietà di approcci in un settore così difficile come quello dei ritratti, che spaziano dal divertimento glamour alla sottigliezza psicologica.
Nelle foto di impronta più reportagistica, come nelle analisi formali di certi aspetti delle città moderna che si offre come spettacolo, per esempio New York.
Ma c’è un aspetto nel quale Graziano mostra uno spirito peculiare, l’ironia nei confronti del mondo che viviamo. Non sono molti i fotografi che posseggono il dono dell’ironia e che lo sanno usare.
Soprattutto lo ritroviamo nelle sue foto di vetrine o nei cortocircuiti e paradossi che provocano i manifesti pubblicitari nel disegnare la realtà che ci circonda, in una commistione tra consumismo e insensatezza che fa riflettere e divertire nello stesso tempo.
Si è anche molto divertito, il nostro Vittorio, nel fare fotografie.
E ci diverte, ci sorprende e ci fa pensare.
Bisogna essergliene grati.
Ferdinando Scianna
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Evasioni – Pippo M. Pappalardo
Qualcuno ha detto, con cognizione di causa, che la più grande ambizione che può nutrire un’immagine fotografica, è finire dentro un album fotografico (se un album di famiglia ancor meglio).
Quindi, finire dentro una collezione, e maturare con la sua traccia cromatica, con la sua tangibile presenza, quel segno oppositivo all’idea primitiva dell’album (quella cioè di bianco) che ogni raccolta di tal genere comporta. Una raccolta, si badi bene, non obbligante ma che si viene a costruire da sé per il privilegio accordato al dispositivo: le fotografie, diverse per natura, formato, qualità di stampa, di carta, differenti per soggetti, per le circostanze della loro ripresa, si “costringono” verso un unico comune denominatore che da un lato le nobilita (per essere state considerate degne di una selezione, di una conservazione) dall’altro, le accosta e le accomuna quasi fossero vagoni ferroviari obbligati dal senso della rotaia.
Non conosciamo gli album dell’amico Vittorio Graziano (per quanto, “l’ana-logicità” delle sue operazioni fotografiche ce ne lascia immaginare la forma); ma, nel mentre cerchiamo di ricostruirlo con la nostra immaginazione, constatiamo che queste immagini, conservate con cura e accostate con attenzione, altra vicenda forse vogliono interpretare. Una vicenda lontana dal loro referente storico; quel referente che, infatti, si vuole liberare della pagina, della necessità del formato, e così ascoltare altri richiami, sfidare altri orizzonti.
Come crisalidi nascoste tra gli anfratti di un tempo ancora vitale, le immagini dell’amico Vittorio, stavolta, rifiutano la loro natura frammentaria e, risolutamente, recuperano, nello spazio della mostra, tutta la loro identità.
Sembrano dirci: “noi fummo” momenti di tenerezza, di orgoglio professionale, di amore filiale, di innamoramento, di festa, di tempo nuovo, di tempo inventato, liberato. Fummo dialoghi, incontri, confronti, scoperte ed agnizioni. Ed ora voliamo verso accostamenti, contatti, connessioni, comunioni, talvolta appena volute talvolta appena cercate dal loro autore.
Oggi, infatti, la contiguità tra una foto e l’altra, la sta costruendo il tempo, quel tempo, ahinoi, che cambia il ritratto fotografico nel ricordo di un nome, che fa di un paesaggio solo il toponimo di un luogo della nostra esistenza, che trasforma un sospiro in un colore sfocato. Queste foto, infatti, furono la vanità di trofei amatoriali, ai tempi del Foto Cine Clube Bandeirante a San Paolo (Brasile), prima, e del Cine Foto Club Etna a Catania, dopo, ma anche la soddisfazione di aver trattenuto per un istante lo spazio ed il tempo.
Ora quegli istanti pretendono altri teatri.
E tutte quelle donne? I loro volti? Le loro domande? I loro silenzi? In mostra, adesso, sembrano riprendersi la loro forza, la loro vitalità. Ma questa vitalità è ancora quella del tempo che fu, oppure è solo “la penombra che abbiamo attraversato”? Le crisalidi di cui sopra, adesso, sono farfalle consapevoli della loro breve esistenza. Sono grate di aver riprovato la dolcezza di uno sguardo, di aver intravisto che ci sono ancora giorni da vivere; ma, come dice il poeta, “Où sont les neiges d’antan?”.
Dice il mio amico Vittorio che “le nevi” sono ancora qui, tutte qui, insieme. Volti di donne, colori, emozioni, tenerezze. Sono tutte qui per provare a rispondere alla domanda più insidiosa che vibra in mostra, sottesa alle pareti: perché lo sportellino della gabbia era aperto?
Pippo M. Pappalardo
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Giuseppe Cicozzetti
Conosco Vittorio Graziano da troppo tempo per non comprendere che dietro lo scrupolo del curatore, il tenace e attento organizzatore di rassegne fotografiche – il MED PHOTO FEST, organizzato dall’Associazione Culturale Aps Mediterraneum di cui è presidente, è giunto alla sedicesima edizione – non battesse un cuore fotografico.
In tutti questi anni, in cui in qualità di collaboratore ho potuto saggiare l’entusiasmo, Vittorio Graziano ha svolto una ricchissima opera di divulgazione della cultura visuale. Il suo sguardo è aperto e sinceramente appassionato ai grandi della fotografia come alle novità internazionali, con una attenzione particolare ai giovani autori cui offrire un’occasione per esprimersi. Noi sappiamo che troppa passione rivela sempre la nostra vocazione, e questa affiora come un grido insopprimibile, come un’urgenza che ora, dopo avere espedito una lunghissima attività fotoamatoriale, vede la sua conclamazione nelle diverse attività della promozione fotografica – e tutti gli autori che negli anni hanno partecipato alle diverse edizioni del MED PHOTO FEST sanno di dovere molto a Vittorio Graziano.
Qui non parlerò di lui in veste di eccellente organizzatore – a dare una semplice quanto parziale mole del suo impegno basterebbe dare una scorsa alla storia dall’Associazione Mediterraneum – parlerò invece risalendo la corrente per giungere dove è nato tutto, e dove prosegue riversando silenziosamente, privatamente la sua inestinguibile passione: l’attività di fotografo. Scorrendo la quantità di fotografie scattate nel corso di una vita e considerato il naturale passaggio del tempo – lo stesso che incide inevitabilmente sulle nostre scelte – realizziamo che lo sguardi fotografico di Vittorio Graziano si sia posato su ogni cosa con la leggerezza di chi vuole comprendere anziché giudicare. Un gesto, un volto, un paesaggio, i luoghi del mondo destano l’attenzione del fotografo per reclamare il diritto a essere sottratti all’oblio. Così il fotografo è chiamato a stabilire col soggetto, sia umano che inanimato, una momentanea, sottile sfida volta a decodificare il senso che è contenuto dentro ogni cosa.
Quando si parla di fotografia, specialmente del suo rapporto nella ripetizione di immagini che consideriamo “già viste”, non dovremmo mai perdere di vista le parole non già di un fotografo ma di uno scrittore, Carlo Emilio Gadda, che con puntualità suggerisce un monito applicabile alla fotografia che non dovrebbe mai essere perso di vista: «Non esistono vite indegne d’essere raccontate; esistono però modi indegni di raccontarle». Questa espressione dovrebbe imporsi nella mente di un fotografo con la stessa luminosità indicativa di un faro. E dovrebbe farlo proprio per il rispetto della vocazione in comune tra fotografia e letteratura: il racconto. Chi fotografa in fondo non smette mai di raccontare. Che sia un dettaglio, una visione, o semplicemente il desiderio di scolpire nella memoria un dettaglio o un vezzo che non ci hanno lasciati indifferenti al termine della nostra attività, quando cioè ci soffermiamo a osservare il lavoro di una vita come fosse una specie di consuntivo, il nostro lavoro avrà contribuito alla costruzione di una memoria personale spendibile sul piano collettivo. Solo se è riconosciuta nell’esperienza collettiva infatti potremo dire di avere un’identità, soli siamo nulla. Eppure, con la forza di un potente quanto irriverente ossimoro, la fotografia è un “mestiere” che per essere svolto richiede alcune condizioni, tra la più inquietante c’è la solitudine.
Vittorio Graziano obbedisce a queste imposizioni al pari di ogni fotografo, e trasloca la silenziosa, muta irrequietezza fin dentro le sue visioni. Ovunque esse appaiano. Ovunque cioè dove l’apparato di segni, di situazioni si attivano per stringere un patto fulmineo con il fotografo; un patto che sancisce che tra i due si è stabilito un flusso di ri-conoscenza. È in questo frangente che un fotografo scatta, durante la pacificazione tra sé e il circostante. A questo proposito non è affatto fuori luogo affermare che non esiste una fotografia che non contenga tracce, più o meno evidenti, della biografia di un autore.
Se, infatti, come abbiamo segnalato appena poche righe sopra, che una fotografia nasce dall’intimità che si stabilisce tra il fotografo e il soggetto – che non necessariamente dev’essere una donna o un uomo – anche quando questo è un monumento, la via di una città, il contatto, una volta innescato si incista sul significato del tempo, fino a scardinarlo.
L’attività fotografica di Vittorio Graziano sembra proprio alludere questo delicato concetto: il tempo, così come lo conosciamo, con il rigore logico della linearità, in fotografia è polverizzato sull’altare della fondazione di un tempo circolare, uno spazio nel quale tutto torna per essere rielaborato, ripensato e consegnato a nuova luce.
O semplicemente, è questo il caso, rivelate per la nostra ammirazione. Vittorio Graziano, attraverso le sue immagini di una vita, ci invita a un viaggio. Ci invita cioè a condividere con lui lo stesso percorso, una traiettoria a volte intima e privata – come le fotografie famigliari – molto più spesso intinte nella grandiosità di un viaggio. In entrambi i casi ravvisiamo il desiderio di raccontarsi, sinceramente. Quanto vediamo in mostra rappresenta un’antologia che, finché non diventa retrospettiva, conserva il sapore di qualcosa ancora in fieri nonostante il tempo trascorso.
La fotografia di Vittorio Graziano, nella sua articolazione, rende omaggio in primis alla stessa fotografia. Anzi, di più. Districandosi con abilità tra i generi fotografici, ci manda a dire che il sostantivo “fotografo” regge senza l’ausilio di aggettivazioni. Qui c’è un grande malinteso da sciogliere. In fotografia i “generi” sono un’invenzione della critica (fotografo di moda, fotografo concettuale, fotografo di paesaggio, fotografo ritrattista e ultimo ma non ultimo fotografo “artista” che, come sostiene il nostro amico comune Ferdinando Scianna, nelle intenzioni del presunto artista vorrebbe porsi in cima alla classifica delle specializzazioni), un’invenzione che paga una sorta di inferiority complex verso la storia dell’Arte. Il risultato è che le cosiddette specializzazioni – che pure esistono – hanno avuto il potere di rendere il sostantivo “fotografo” una parola monca, zoppicante se non accompagnata da una specificazione. Un fotografo è un fotografo.
Ed è in ragione di questa consapevolezza che le fotografie di Vittorio Graziano ci appaiono disinnescate da qualsivoglia vertigine alla moda e restituite alla loro più importante funzione: narrare, narrare e ancora narrare.
Confesso la mia sorpresa. Come ho scritto all’inizio di questo intervento conosco Vittorio Graziano in qualità di curatore, pur senza farmi illusioni circa un suo diretto coinvolgimento nella fotografia. Ma osservando ognuna di esse ho compreso come la sua passione per la fotografia sia attiva e abbia radici ben radicate. È come un virus la fotografia, una volta insediato nell’organismo non va più via, e se va via lascia il ricordo di sé in modo indelebile. Guardare il mondo da dietro un otturatore, scegliere tempi di apertura del diaframma e poi precipitarsi a vedere rinvenuta l’immagine “nata da un veleno e dalla luce” (A. Boito) è un’esperienza formativa, ma per l’osservatore non c’è meraviglia più grande che il dispiegarsi di fotografie che, irrobustite dalla sensibilità di un autore, ci aiutano a comprendere le cose del mondo.
Le fotografie di Vittorio Graziano, che potremmo definire “ritrovate”, tanto a lungo sono rimaste protette, segnalano un percorso personale e professionale che andava condiviso con tutti noi. Il tempo lo pretendeva. Il tempo imponeva che le fotografie di Vittorio Graziano fossero mostrate e, insieme alle immagini, che fosse ritrovata la voce di un fotografo.
Giuseppe Cicozzetti
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Curatrice della Mostra: SONIA LOREN
“ Ti porto un’acqua dimenticata nella tua memoria:
seguimi fino alla fontana e scoprirai il suo segreto.”
Patrice de La Tour Du Pin, Le second jeu, Gallimard, p.106
Bachelard scriveva ne “La Poetica della Fantasticheria” che quando in solitudine, sognando più a lungo, ci allontaniamo dal presente per rivivere i tempi della prima vita, diversi volti di bambini ci vengono incontro. Dice che ce n’erano molti di noi nella vita già vissuta, nella nostra vita primitiva. Pensiamo alla memoria come a un campo di rovine psicologiche in cui i ricordi si accumulano e possiamo reimmaginare la nostra intera infanzia con i propri sogni ad occhi aperti di bambini solitari. Non solo un sogno ad occhi aperti per fuggire, ma un sogno ad occhi aperti liberi, pur di spiccare il volo. Qui sta la bellezza in noi, nei confini della nostra memoria. È ciò che ci spinge e ci anima, ci dà la libertà di creare. È nell’ordine della fantasia che possiamo esseri liberi.
Vittorio racconta nei suoi ricordi di essere stato un bambino solitario e che queste prime solitudini, queste solitudini infantili a cui Bachelard si riferisce, lasciano in certe anime ferite indelebili. Forse all’età di tredici anni ha trovato questa libertà quando ha ricevuto la sua prima macchina fotografica, regalatagli da suo papà, per diventare un “sognatore del mondo”. Tutto un mondo si aprirà a colui che si apre al mondo con gli occhi, con il cuore e con l’anima.
Cronologicamente, guardo gli anni dal 1974 al 2024 e una tenerezza mi invade nella prima foto intitolata, appunto “Tenerezza”. Quante volte un “puro ricordo” riesce a riscaldare un’anima che si ricorda?
Questa madre che accoglie tra le braccia il suo bambino addormentato e che ha lo sguardo su ciò che c’è nel “mezzo”, nel “mezzo” dello sguardo di Mariella madre e donna, ci tiene nello sguardo che ci “ferisce e ci mortifica” in modo così vero da trovare calore e tenerezza nella figura del bambino che colpisce lo sguardo del fotografo. Siamo tutti Mariella, siamo tutti il bambino che è ancora in noi. Uno stato d’animo, rifugi dal passato che accolgono e proteggono i nostri sogni ad occhi aperti. Mi soffermo anche sui volti familiari a Vittorio, occhi e gesti che parlano per raccontarci Elio, Roberto e Anna nel bianco e nero dello studio, al colore della vita di tutti i giorni. «Che sole o vento c’era in quel giorno memorabile?» Com’è bello il soggetto nella breve storia di un gesto.
Possiamo chiudere gli occhi e “ascoltare” il silenzio nella sala dell’antico Cinema Golden, inaugurato nel novembre 1974 (esattamente cinquanta anni addietro), quante storie apparentemente morte e sepolte sono attraversate da un rumore interiore, che non possiamo vedere, ma che la nostra fantasia cerca di salvare dalla scomparsa. Vittorio, progettista del cinema, ci racconta che gli piace ricordare il brusio e vocio nell’atrio, dovuti alla curiosità, la sera dell’inaugurazione. Cinema affollato. L’atrio e la sala si sono accesi di azzurro e marrone, col soffitto grigio chiaro.
Chi non ricorda l’indimenticabile “Nuovo Cinema Paradiso”? Ricchi della colonna sonora del grande Ennio Morricone, i ricordi di Graziano creano che il nostro sguardo occupa questo spazio nel tempo della sua opera e la sua trama prende i nostri sensi, ci porta a far parte della memoria che non ci appartiene, ma ci rende complici. Un rapporto emotivo con il passato, il desiderio di occupare il proprio posto.
Possiamo anche ritrovare nelle pulsioni creative del fotografo, la sperimentazione dei colori nelle fantasticherie dualistiche del maschile e del femminile, in uno dei suoi primi dipinti, intorno ai 18/20 anni, “Simbiosi” e nelle fotografie a volte sature che portano calore alle giornate grigie internamente, la precisione geometrica nelle foto di architettura, in Italia e all’estero, in varie località dove ha viaggiato, come “Il mio Brasile“, dove ha vissuto e lavorato per un lungo periodo, soprattutto negli anni ’70 e ’80, influenzato dall’adesione al Foto Cine Clube Bandeirantes di cui, orgogliosamente, ne ha fatto parte.
Vittorio ha fotografato il carnevale colorato e gioioso, la semplicità della gente per le strade e gli enormi pannelli pubblicitari creando un racconto, nel momento esatto in cui qualcosa o qualcuno si trova davanti al suo sguardo curioso e preciso. Lo sguardo di uno straniero in un paese che gli ruba il cuore. Questo sguardo continuerà per tutta la sua vita, con la fotografia di strada nei piccoli o anche nei grandi dettagli, in ciò che nessuno vede, o passa inosservato nella frenetica routine delle persone.
Vittorio si muove sempre con grande scioltezza attraverso i propri suoi diversi percorsi fotografici e ritrovando gli elementi a cui fa riferimento Roland Barthes in Camera Chiara, dallo Studium al Punctum, siamo sedotti dai suoi sogni ad occhi aperti in ogni sguardo ai suoi ritratti di uomini, donne, bambini o oggetti, come nell’opera “La Calza Rossa”. Anche se per caso, il fotografo riesce a trovare il momento migliore, il kairos del desiderio.
Guardando l’anima della fotografia, sia essa “una” verità o sia pure “una” menzogna allo stesso tempo, un’immagine è ciò che decidiamo di farne. Quante pagine servirebbero per 50 anni di ricordi fotografici, della vita che lì circolava? Se la vita è l’arte dell’incontro, troviamo un Vittorio riconciliato nella sua profondità e nella sua superficie. Si appartengono “superando le correnti gravitazionali”.
Con le parole stesse di Graziano per un testo della mia opera “Submersa”, il corpo come anima, vorrei qui ricordare un piccolo brano “A volte, nel corso della nostra vita, per risalire la china o la profondità del mare è necessario, davvero, toccare il fondo”. Nel capolavoro di Franco Battiato, “La Cura”, la propria anima rimasta intatta, anzi migliorata con gli anni, superando le avversità del tempo e dello spazio, sale a collocare sulle proprie spalle la flebile corporeità che, contrariamente all’anima, si è trasformata, invecchiata, acciaccata sotto il peso del tempo e del fatto di “dovere vivere.”
Vittorio scrive con luce infinita inquietudine, immagini che si svolgono come pensieri. Una fortuna per noi spettatori nella diversità delle sensazioni e delle esperienze che derivano dal contatto con l’opera. Ma da quale remota epoca siamo venuti a quell’ora? L’orologio delle stagioni…
SONIA LOREN, Curatrice della Mostra
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Nulla può essere visto del tutto – Federica Alba Di Raimondo
“La verità accade muta, ma nuda
una luce senza vanto
un bouquet d’ombre impagliate”
Santo Burgio
Le mostre e i musei sono luoghi accessibili a diverse persone, esperte o curiose, motivate o fortuite, cieche o vedenti. La fotografia in bianco e nero di Vittorio Graziano è un viaggio dal 1974 al 2024; un’istantanea frammentata in diversi scatti che può dirci alcune cose di lui, diverse dei soggetti che ritrae, ma molto di più di noi e di come siamo persuasi di guardare e cogliere la realtà dal bianco al nero delle sue scale cromatiche.
Nel corso dei miei anni come viaggiatrice ho spesso attraversato i luoghi, le piazze e le sale espositive chiudendo gli occhi e allungando una mano per accarezzare altre sensazioni e persino cercare altri inneschi percettivi. Vedo le cose, ma come le guardo? mi chiedevo. Un’interrogazione fra occhi e coscienza epistemica opera nella tessitura della mia esperienza.
Oggi mi domando quanto vediamo della realtà in una fotografia, il risultato di uno scatto che riporta la fedeltà di una sezione di tempo e spazio; ma in quali rappresentazioni, limiti e proiezioni? Sono in dialogo con la mia cecità simbolica da un po’ di tempo e reputo che le opere d’arte non si ammirino essenzialmente ad occhi aperti, neanche quando sono fotografie. Sembra un aspetto apparentemente confuso, ma ha per me una coerenza con la maturità di un’esperienza artistica.
Una mostra di opere d’arte è l’esibizione di un intento e di una visione (propriamente) che può essere recepita o mancata come ogni comunicazione. Chiudere gli occhi (allentare la dominanza della vista e delle sue certezze indotte) può essere un esercizio utile per comprendere in quanti modi si emani un linguaggio che vuole diffondersi; così come pure utile può essere comprendere che tenerli aperti non è sufficiente a vederne l’interezza o l’ampiezza.
Guardare le fotografie di Vittorio Graziano ha un valore prezioso: ritrae l’interesse di un autore, il suo movimento e l’evoluzione; tuttavia: è agli occhi che appare l’intensità del suo desiderio artistico o è forse nella nostra predisposizione ad apprenderlo? La vista cioè, anche nella fotografia, non è una scelta che va fatta in via preliminare sapendo che non si conclude con gli occhi?
José Saramago affermava che solo in un mondo di ciechi le cose saranno ciò che sono veramente ed io, da qualche tempo, ritengo che vedere e guardare siano attività volontarie, dagli esiti ineluttabilmente approssimativi e relativi. Pertanto chiudo gli occhi sull’arte come si apre lo sguardo sulle ombre della vita e suppongo di aver appreso che non ci si illumina guardando la luce, ma diventando consapevoli del buio. La fotografia, nonostante l’evidenza della sua meccanica, rischiara fortissimamente il senso di questo insegnamento.
Quello che vorrei dire delle fotografie di Vittorio Graziano è che tutto quello che rivelano risiede forse nel nascondimento, nel momento immediatamente successivo alla vista, laddove comincia la relazione con la memoria di ciò che abbiamo veduto e sorge la domanda su ciò che non ci è stato svelato.
La vista può essere la cosa più oscura quando non dubitiamo della sua apparenza. Lo sguardo consapevole sostiene ciò che gli occhi non rivelano.
Federica Alba Di Raimondo
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Enzo Gabriele Leanza
Una retrospettiva di cinquant’anni di attività fotografica è un’impresa ardua sia per chi deve selezionare le proprie immagini, attingendo a un archivio sconfinato, sia per chi, come me in questo caso, deve scriverci sopra una seppur breve riflessione.
Se poi il “cinquantenne fotografico” è un autore poliedrico e iperattivo come Vittorio Graziano l’impresa si fa ancora più ardua. La fatica che si pone innanzi viene comunque alleviata dall’amicizia che personalmente mi lega a questo ingegnere catanese un po’ globetrotter, un po’ mecenate, un po’ direttore artistico, un po’ collezionista ed a volte anche un po’ fotografo.
Tutti questi po’ compongono la personalità multi-sfaccettata di Vittorio, che nella Sicilia fotografica, soprattutto in ambito amatoriale, ha esercitato per decenni un ruolo di leadership indiscussa, quando, da socio del Cine Foto Club Etna, guidava la truppa dei concorsari isolani, mietendo successi in ogni dove, tanto da essere presente, primo tra i siciliani, nella Top 100 nazionale degli autori con il maggior numero di riconoscimenti.
Nessuno di questi successi è stato però regalato al buon Vittorio, che col rigore che avrà sicuramente utilizzato nella sua professione si è applicato anche in fotografia. Colorista per eccellenza, allievo spudoratamente dichiarato di Franco Fontana, ha fatto della composizione il suo marchio di fabbrica, non facendo mancare al necessario rigore anche una spiccata ironia, oltre che una profonda sensibilità umana. Street photographer ante-litteram Vittorio ha posto il suo sguardo su vari soggetti: dai paesaggi di Sicilia alle architetture delle isole minori, passando per la cartellonistica stradale, lo sport e il teatro, senza dimenticare il ritratto e il nudo, generi questi ultimi cui ha dedicato molta attenzione soprattutto nelle sue ricerche più recenti.
Non posso quindi che sentirmi onorato dalla richiesta di Vittorio di scrivere un breve pensiero sul suo lavoro – tanto onorato quanto invidioso della sua conoscenza personale con il maestro Luigi Ghirri – e, nel ricordarne le imprese fotografiche, che tutti qui possiamo ammirare in mostra, vorrei anche sottolinearne l’impegno nella promozione della fotografia in senso generale, impegno incarnato da tante edizioni del Med Photo Fest, manifestazione tra le più importanti nel mezzogiorno d’Italia che lui ha ideato, condotto e realizzato spesso da solo e altrettanto spesso con l’aiuto di tanti amici, come me, che nel corso del tempo ne hanno apprezzato l’impegno e la signorilità.
Enzo Gabriele Leanza
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Testimone della propria soggettività – Carlo Guarrera
Il semiologo Roland Barthes, attento analista dell’immagine, partendo dallo spettatore di una foto distingueva due modi di fruire l’oggetto osservato: lo studium e il punctum.
Il primo costituisce l’aspetto razionale, per cui lo spettatore mentre osserva si chiede chi sono le persone ritratte, quali azioni compiono, dove ci troviamo e altri aspetti e informazioni strettamente collegati a quella fotografia.
Il punctum invece è quel modo non razionale ed emotivo che colpisce l’attenzione per effetto di un dettaglio, di un colore, di un oggetto o di una forma.
Nell’ampia collezione che ci presenta Vittorio Graziano chi guarda sembra guidato verso l’una o l’altra modalità, a seconda dell’album fotografico in questione.
Per esempio, la serie dedicata al Brasile è d’impatto fortemente narrativo: quelle immagini sembrano volerci raccontare delle storie per mezzo di persone, di colori e di ambienti.
Se invece guardiamo la sezione dedicata ad Arles, pur trattandosi di immagini scattate in una città, non percepiamo lo sviluppo di un racconto, di una descrizione, quanto piuttosto la presenza di una suggestione, di un’impressione: un reggicalze nero che trattiene una calza rossa; una Marylin Monroe pop, iconica e sensuale, con la gonna frenata sopra una griglia di ventilazione accanto a un tavolino da bar; una giovane donna che ci guarda facendoci precipitare dentro i suoi occhi.
Anche alcune foto che dovrebbero raccontarci il carnevale di Rio ci restituiscono piuttosto solo bagliori rossi su fondo nero, con una grafica anni Settanta fatta di immagini stilizzate di danzatrici psichedeliche scatenate.
Queste foto esortano l’occhio a soffermarsi sui particolari e ci convocano nel mondo dell’irrazionale e dell’immaginazione, ci fanno viaggiare con i nostri pensieri e con i nostri ricordi. Infine ci sono le cosiddette foto famigliari, quelle delicate e forse anche sentimentali che ci rivelano bimbi e bimbe, ragazzi e ragazze, collezione che si presuppone voglia presentare la famiglia: anche su queste ultime foto chiunque può esercitarsi a ripercorrere le tappe dei propri ricordi.
Qui Graziano risulta, come direbbe Barthes, “testimone della propria soggettività”.
Carlo Guarrera
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Marcella Strazzuso
Finalmente le fotografie di Vittorio Graziano hanno trovato la loro giusta collocazione in una mostra che rende giustizia allo loro bellezza e al loro spessore.
Una accanto all’altra definiscono un percorso affascinante che testimonia l’attività di una vita e la ricchezza di interessi dell’autore.
Un viaggio attraverso la realtà che affronta diverse tematiche, cogliendone le molteplici sfumature, e che appare sostenuto dall’amore per le persone, i luoghi, gli avvenimenti.
Gli scatti di Vittorio emozionano, sia che si tratti del viso di un bambino, del sorriso di una madre, della sagoma di un edificio, soggetti i cui dettagli accendono l’immaginazione.
Spalancano un universo caleidoscopico che cattura i visitatori attraverso sguardi, ombre, guizzi di luce.
Disegnano un mondo animato da impercettibili movimenti, più evidenti nei ritratti di danzatrici o di sportivi, ma anche nelle straordinarie riprese del carnevale di Rio, più tenui nelle raffigurazioni degli assorti bonzi thailandesi, pervasi da una possente tensione interiore, o dei paesaggi notturni carichi di sospensione e di attesa.
In modo diverso dalle parole, le fotografie raccontano storie, non descrivono ma suggeriscono attraverso angolature, primi piani, colori avvalendosi di particolari, simmetrie, opposizioni.
In questa mostra è racchiusa la storia di Vittorio documentata dal fotografo: gli affetti più cari, i viaggi, le architetture che, da ingegnere, lo hanno attirato.
Così ammiriamo i ritratti di famiglia, di uomini, donne e bambini che ha incontrato, di volti noti e sconosciuti che nel tempo lo hanno colpito. Scatti che rivelano amore, tenerezza, smarrimento, gioia, dolore.
Così ci ritroviamo con lui in Brasile, in Tailandia, a New York, a Zagabria e proviamo le sue stesse emozioni di fronte alla diversità dei paesaggi naturali e umani.
Vittorio guarda la realtà con curiosità e ne coglie l’essenza nei corpi, negli oggetti, negli spazi.
A volte il racconto è esplicito, a volte è situato dentro un altro racconto, come avviene nelle foto che ritraggono i manifesti pubblicitari o in quelle che riproducono il corpo delle donne. Perfette, imperfette, deformate da una smorfia, vigili, assorte le donne rimangono comunque centrali nell’immaginario del fotografo e nelle sue rappresentazioni visive, presenze salvifiche o perturbanti, enigmatiche, sensuali, amiche, nemiche.
In un’epoca, come la nostra, compressa in miliardi di istanti, la fotografia dilata il tempo e in essa passato e presente, cronaca e memoria s’incontrano reinventando una nuova contemporaneità e si proiettano verso il futuro.
Vittorio con maestria è riuscito ad accendere la scintilla necessaria a innescare questo processo.
Marcella Strazzuso
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Ho sempre amato l’arte in tutti i suoi diversi aspetti.
Certo, la presenza in casa di mio papà, nei giorni dedicati alla famiglia, era fondamentale, per me bambino.
Possedeva una manualità e capacità eccezionali, sia nello scrivere che cucinando salse, vongole e cozze, o confezionare salsicce che avrebbe successivamente arrostito, da buon napoletano, ma anche sapendo ritrarre con la sua macchina a soffietto i membri della nostra famiglia, mamma, fratelli e sorella, ma soprattutto nel disegnare con pennino e inchiostro di china tante figure e oggetti, soprattutto foglie e frutti.
Già all’età di 4/5 anni, mi regalava degli album da disegno e i pastelli a colori, che utilizzavo spesso e volentieri. A tredici anni mi donò una macchina fotografica manuale Agfa Silette, che portavo sempre con me, specie nelle gite scolastiche.
Malato da alcuni anni, decise di andarsene una notte di maggio, quando avevo sedici anni. Dedicai quindi la mia giovinezza (a parte gli studi scolastici, prima, e l’Università, successivamente) alle arti visive, cominciando a pasticciare cartoni telati, cartoncini e pannelli varie.
Il mondo della “Fotografia” mi travolse casualmente, nel visitare una mostra collettiva di fotografi importanti (mi ricordo dei catanesi Rossi, Merito e Scialfa) esposta al Palazzo della Regione di Padova, città dove pochi anni dopo, mi laureai in Ingegneria. E quindi, in successione, la professione, il matrimonio, i figli, il Brasile e poi il rientro in Italia.
La passione per la Fotografia, prima come autore, poi, anche e soprattutto, come promotore della “fotografia autoriale”, sia italiana che straniera, attraverso l’invenzione del Med Photo Fest, oggi al sedicesimo anno consecutivo, con la folle determinazione di creare l’Archivio Fotografico della Mediterraneum Collection.
I miei cinquant’anni di fotografia, sono tutti qui e “La vita è, davvero, l’Arte dell’Incontro” come, a ragione, sosteneva il grande Vinicius de Moraes. Chissà se entrambi (Napoli e Rio de Janeiro non sono così, tanto distanti) non si siano incontrati, per sostenerci?
Vittorio Graziano
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Approfondimenti
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Articolo sulla prestigiosa “Spectrum” – Bookzine di Cultura Fotografica, a firma di di Enzo Gabriele Leanza
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